Tra le centinaia di personaggi ritratti da Tullio Pericoli, Samuel Beckett è senz’altro uno dei più ricorrenti, essendo stato raffigurato dall’artista marchigiano (nato nel 1936 a Colli del Tronto, in provincia di Ascoli Piceno) in almeno ottanta versioni. Oltre a svolgere un ruolo centrale in uno dei libri più importanti dedicati da Pericoli all’arte del ritratto (L’anima del volto, 2005), alcune sue variazioni sul tema Beckett sono state esposte nelle città più significative nella vita dello scrittore, vale a dire Dublino (Drawings, watercolours, and paintings of Samuel Beckett by Tullio Pericoli, 2007) e Parigi (Samuel Beckett, le plus beau visage du XXe siècle, 2019).
Eppure, come ha chiarito l’artista, la predilezione figurativa per Beckett non è direttamente proporzionale a quella letteraria: egli non ha mai posto l’opera del drammaturgo irlandese al vertice del suo pantheon personale, trovandola poeticamente non così affine come quella di Robert Louis Stevenson, per esempio, o quella di Italo Calvino. Piuttosto, ciò che Pericoli trova maggiormente stimolante nell’autore di Aspettando Godot è il suo viso (il più bello del Novecento, a suo parere), solcato com’è da un intrico di rughe “parlanti”, quasi fosse “una maglia fatta delle sue parole”. A guardarlo, infatti, Beckett dà a Pericoli l’impressione “che la faccia se la sia scavata scrivendo, che la sua scrittura continui sulla superficie del suo volto, come se le sue parole ne disegnassero i lineamenti”.
Ma come può un volto raccontare vita e opere del suo proprietario, esserne una sorta di biografia vivente? Questo è possibile, secondo Pericoli, perché l’interiorità delle persone ha una forza tale da mettere in crisi i limiti delle forme e dei linguaggi, producendo ideali crepe dalle quali tralucono lembi di realtà celati sotto le apparenze. Se l’osservatore è un artista figurativo, tali frammenti di vita nascosta entrano in rapporto con la soggettività intrinseca dei suoi punti e delle sue linee, che Pericoli (sulla scia di Paul Klee e di Saul Steinberg) considera elementi vitali già di per sé, dotati di un’esistenza autonoma, dando così luogo a un gioco combinatorio potenzialmente infinito. Un esercizio composito (in cui si mescolano i pensieri degli occhi, i pensieri della mente e i pensieri della mano, per usare una terminologia cara all’artista) che indaga le dinamiche tra il sopra e il sotto, il dentro e il fuori, il prima e il dopo, la parte e il tutto: elementi sempre in tensione che scardinano la dimensione meramente fisica dell’oggetto-volto, il quale diventa il terreno di una ricerca che, lungi dal voler cogliere una platonica “essenza” della cosa, punta a cercare rapporti sempre mutevoli, riscontrare affinità impreviste, muoversi incessantemente tra lo scavo archeologico, l’appropriazione indebita e l’attribuzione arbitraria. È dunque vero e falso nello stesso tempo sostenere che Pericoli resti sempre nell’alveo della fedeltà anatomica rispetto ai soggetti che ritrae.
Rivelatori, in questo senso, sono gli occhi gialli assegnati a Beckett, sui quali circola da tempo un aneddoto. Quando Stephen Joyce ⎯ che lo contattò per chiedergli il permesso di usare ai fini di un’emissione filatelica un ritratto da lui eseguito del nonno James Joyce ⎯ gli domandò come mai avesse deciso di non riprodurre in modo realistico gli occhi di Beckett, noti per l’intensità del loro azzurro (che Joyce-nipote ben conosceva, essendo stato Beckett il suo testimone di nozze), Pericoli rispose che non avendo mai avuto modo di notarli sulle fotografie in bianco e nero di cui disponeva, se li era immaginati di colore giallo, come quelli di un’aquila. L’aquila è un animale dotato per definizione di una vista acutissima e panoramica, mentre Beckett, come ha sottolineato lo stesso Pericoli, era tra coloro che hanno insistito sulla necessità di saper osservare, lamentando in una delle sue lettere quanto spesso si tenda ad arrendersi al “mal visto”. Un invito che ci fanno questi “arbitrari” occhi gialli, quindi, è quello di coltivare l’arte di vedere oltre le apparenze, cercando di non sprecare l’enigmatico potenziale conoscitivo di cui è dotato il nostro sguardo.